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Filiera corta: prodotti agricoli a Km zero, nuovo stile di consumi
Farmer markets, ristoranti a chilometro zero, distributori
di latte crudo e scelte consapevoli: il mercato dei consumi si orienta
verso la sostenibilità e a guadagnarci non è solo il consumatore, ma
anche l’economia del territorio.
Ma cos’è esattamente la
filiera corta? Cosa prevede il
Km zero? Quali vantaggi porta al consumatore in termini economici e alimetari? Scopriamolo con questa guida!
Storia della filiera agricola
Uno dei primi teorici del consumo di prodotti locali è lo statunitense
Gary Paul Nabhan, che nel 2001 ha pubblicato il libro “
Coming Home To Eat”.
Accattivante ed ironico, nel libro vengono descritti gli sforzi
compiuti da questo etnobotanico al fine di consumare cibi la cui
provenienza fosse circoscritta in un
raggio di 220 miglia (circa 400 chilometri) dalla sua casa in Arizona.
Pochi anni dopo, nel 2005, i giornalisti James B. MacKinnon e Alisa Smith fecero anche di più: restringendo il raggio a sole
cento miglia,
per un anno si cibarono di prodotti provenienti esclusivamente dal
territorio circostante la loro casa di Vancouver, in Canada. La loro
esperienza è raccontata nel libro “
The 100-Mile Diet: A Year of Local Eating”, ancora inedito in Italia ma che ha riscosso un grande successo nel mondo anglosassone.
In
Italia la cultura del “chilometro zero” è approdata in tempi recenti,
ma ha trovato da subito un terreno fertile: basti pensare che nel 2008
la
regione Veneto, prima in Italia, si è dotata di una
legge (L.R. 25 luglio 2008, n. 7 BUR n. 62/2008) volta a riconoscere le
attività di distribuzione e ristorazione che, in percentuali comprese
fra il 30 e il 50%, si approvvigionano di prodotti di origine veneta.
Non
solo: la maggior richiesta di alimenti di provenienza locale ha avuto
un ‘effetto volano’, sulla proliferazione dei cosiddetti “
farmer markets”,
ovvero i “mercati contadini” nei quali agricoltori ed allevatori,
evitando le maglie della grande distribuzione, offrono i loro prodotti
direttamente al consumatore. Parallelamente a questo ‘nuovo’ (eppur
antico!) modo di fare la spesa, anche il mondo della ristorazione ha
accolto e sfruttato le opportunità offerte dai mercati del territorio:
sono infatti in costante aumento i cosiddetti “
ristoranti a chilometro zero”, nei quali vengono serviti piatti cucinati secondo la tradizione, i cui ingredienti sono rigorosamente di provenienza locale.
Da sottolineare infine è la recentissima approvazione del Ddl ‘
Norme per la valorizzazione dei prodotti agricoli provenienti da filiera corta e di qualità’,
approvato dal Consiglio dei Ministri il 1° marzo 2010. Il provvedimento
è uno strumento legislativo di primaria importanza perché, per la prima
volta, definisce i mercati agricoli di vendita diretta, promuovendo la
domanda e l’offerta dei prodotti agricoli a chilometro zero e fornendo
un inquadramento del settore dal punto di vista legislativo.
Quanto viaggia la nostra spesa?
Camminando
per le corsie di un qualunque supermercato, ognuno di noi non può che
rimanere quasi stordito dall’assortimento di prodotti disponibili: dal
reparto ortofrutta a quello della macelleria, dal banco del pesce agli
sterminati scaffali di prodotti alimentari, la scelta è pressoché
illimitata.
Eppure, non è difficile ricordare che fino a qualche tempo fa la spesa
la si faceva dal fruttivendolo, dal macellaio, al piccolo negozio di
alimentari sotto casa. Il panettiere produceva le giuste quantità di
pane per soddisfare la sua clientela ed evitare gli sprechi, dal
fruttivendolo le zucche si trovavano solo in inverno e le pesche solo in
estate, e non era raro che dal pescivendolo non si trovasse un certo
tipo di pesce, se ad esempio le condizioni meteorologiche impedivano ai
piccoli pescherecci di uscire in mare. Ed ora?
Quantità
imbarazzanti di cibo che ogni giorno vengono gettate, prodotti del
reparto ortofrutta che si trovano costantemente in qualsiasi momento
dell’anno, carne e pesce provenienti da altri Paesi, se non da altri
continenti. Ad esempio, secondo un’indagine della Coldiretti, negli
ultimi anni le importazioni di frutta e verdura dall’estero hanno
raggiunto nel un valore complessivo di circa
due miliardi di euro;
i Paesi maggiormente coinvolti sono quelli sudamericani (Colombia,
Ecuador, Cile, Brasile e Argentina) ma anche europei (Spagna) ed
africani (Marocco, Egitto, Tunisia). I prezzi competitivi offerti dai
prodotti di importazione mettono decisamente a rischio le produzioni
ortofrutticole italiane, che sono fra le maggiori in Europa con
produzioni annuali di circa
20 milioni di tonnellate di frutta e
16 di verdure ed ortaggi.
Certo,
esistono prodotti ortofrutticoli la cui importazione è praticamente
indispensabile (come, ad esempio, la frutta tropicale), poiché le
condizioni climatiche in Europa non ne consentono la coltivazione,
eppure è ormai prassi trovare sul mercato italiano
non solo le primizie, ma anche i prodotti di stagione:
pere argentine, arance sudafricane, mele cinesi e fagiolini del Kenya.
Per non parlare di vini cileni, bistecche argentine, tonno del Pacifico o
carne di canguro. Questo cosa comporta? Che, mediamente, per arrivare
su una tavola occidentale, un pasto medio ha frequentemente viaggiato
per un totale di oltre
1900 chilometri (e questo lo sostiene il premio nobel Al Gore, nel suo libro ‘
An Inconvenient Truth – Una scomoda verità’,
Rizzoli). Nei casi più eccezionali, un vino australiano deve percorrere
oltre 16000 chilometri per giungere al nostro bicchiere, consumando
quasi 10 kg di petrolio ed emettendo una trentina di chilogrammi di CO
2;
non va meglio con la frutta cilena che genera, per ogni chilogrammo di
prodotto, più di 22 kg di anidride carbonica, dovendo viaggiare per
oltre 12000 chilometri e consumando oltre 7 kg di petrolio. Ma quali
sono i costi di questa follia commerciale?
Alla luce dei fenomeni
di caro-petrolio, che si presentano con sempre maggior frequenza, e dei
costi non indifferenti della logistica, appare evidente che questo
sistema di consumo globalizzato
non è sostenibile né
dal punto di vista ambientale né da quello economico. I prodotti che si
trovano a viaggiare su camion, nave, aereo sono indiscutibilmente più
costosi di quelli nostrani.
Fortunatamente, sempre secondo la
Coldiretti, la contaminazione dei mercati del nostro Paese da parte di
prodotti stranieri ha un valido ‘nemico’ in tre consumatori su quattro,
che sostengono di riporre
maggiore fiducia nei prodotti di provenienza italiana e che, in quasi la metà dei casi (46%) sono disposti a
spendere di più pur di acquistare un prodotto del nostro Paese.
I farmer markets
Quasi
come una ‘ribellione’ nei confronti degli sprechi e delle assurdità del
sistema commerciale, negli ultimi anni il consumatore italiano ha
riscoperto la sua sensibilità nei confronti di un consumo critico e
sostenibile; uno dei maggiori risultati di questa presa di coscienza è
stato il diffondersi dei cosiddetti ‘
farmer markets’, ovvero dei
mercati contadini.
Presenti in quasi tutte le città italiane, i mercati nei quali si
commerciano esclusivamente prodotti locali sono ormai una realtà
consolidata. I piccoli produttori del territorio hanno l’opportunità di
vendere direttamente ai consumatori gli alimenti provenienti dalle loro
aziende, evitando perciò i passaggi intermedi dei grossisti e delle
grandi catene di distribuzione.
I risvolti positivi di questa “
filiera corta”
sono numerosi, a partire dalla competitività dei prezzi di alcuni
prodotti, che non subiscono i ricarichi generati dal passaggio di mano
fra un intermediario e l’altro. Inoltre, la provenienza locale dei
prodotti garantisce la
freschezza degli stessi, a
differenza di quanto avviene nella grande distribuzione per la quale si
rendono necessarie metodologie di conservazione (es. celle frigorifere,
additivi chimici e conservanti) che vanno ad influenzare negativamente
le qualità organolettiche dei prodotti stessi. Il presupposto stesso del
“km zero”, inoltre, fa sì che i cibi subiscano un trasportati solo su
distanze relativamente brevi, il che consente la
riduzione dei consumi energetici e delle conseguenti emissioni di anidride carbonica.
Le
aziende agricole gestite dai produttori locali sono generalmente di
dimensioni ridotte, e la presenza estesa di serre rappresenta più
l’eccezione che la regola. Ciò significa che gli agricoltori coltivano
seguendo i
ritmi della natura, e che i prodotti
reperibili nei mercati territoriali sono rigorosamente di stagione.
Proprio la riscoperta della periodicità dei prodotti ortofrutticoli sta
alla base del successo dei
farmer markets, in netta
contrapposizione con l’astagionalità tipica della grande distribuzione;
il consumatore infatti tende ad ‘autoeducarsi’ al fatto di non poter
mangiare pomodori a dicembre, o mele a giugno, ritrovando perciò un
contatto positivo con la
stagionalità dell’alimentazione.
Rifornirsi presso mercati legati al territorio significa anche la possibilità di trovare
varietà locali di frutta e verdura, come la zucchina di San Pasquale (Campania) o il cipollotto Nocerino DOP, ma anche varietà
zootecniche
considerate “minori”, come ad esempio il suino nero di Parma o le
decine di razze ovine, suine e caprine locali diffuse sul territorio
nazionale. Da sottolineare inoltre è la valorizzazione delle varietà di
cereali che la produzione agricola industrializzata ha soppiantato, ma
che sono state recentemente oggetto di progetti di recupero e
conservazione della biodiversità.
Fare acquisti ai mercati locali
fa bene non solo all’ambiente ma anche al portafogli: secondo una
recente indagine di Coldiretti, infatti, il
risparmio legato all’acquisto a chilometro zero è intorno al
30% raggiungendo, in alcuni casi, anche il
50%. Acquistando prodotti locali, il risparmio può essere quantificato in circa
cento euro al mese (calcolato su una spesa media di 467€) e, da non trascurare, consente di evitare emissioni di CO
2 pari ad una tonnellata all’anno.
Da non trascurare, infatti, è la
socialità
legata all’acquisto locale: i mercati contadini sono spesso luoghi dove
è piacevole fermarsi per osservare i prodotti, parlare, confrontarsi
con i produttori, stabilendo rapporti di fiducia e promuovendone la
solidità nel tempo.
Ristorazione a chilometri zero
Il
mondo della ristorazione ha colto al volo l’opportunità offerta dalla
promozione dei mercati locali, e sono sempre di più i ristoranti che
offrono i cosiddetti “
menu a km zero”. L’idea nasce da
Padova, grazie al sostegno offerto dalla regione Veneto, e identifica
quei locali che offrono cibi reperiti in un raggio di
cento chilometri. L’osteria “
Vitanova”
di Padova è stato il primo ristorante a ricevere la certificazione del
“km 0”, offrendo ad esempio grana padano e formaggio Asiago provenienti
da meno di trenta chilometri di distanza, vino dei Colli Euganei da 27,
mentre il radicchio ne deve percorrere solo 16. Insieme ad un’altra
ventina di ristoranti veneti che sinora hanno ricevuto la
certificazione, in tutta Italia l’esperimento sta allargandosi a macchia
d’olio; ad esempio, nel
Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano
è stato avviato nel 2008 un concorso volto alla premiazione dei
migliori “menu a chilometro zero” dei ristoranti ubicati nel territorio
del parco. La valorizzazione del ricchissimo patrimonio enogastronomico
dell’Appennino settentrionale è stato promossa da numerosi ristoranti
dislocati nelle province di Massa Carrara, Lucca, Parma e Reggio Emilia,
e per la cronaca il vincitore della prima edizione è stato il
ristorante “
Montagna Verde” di Apella (Ms), il cui menu a km zero ha sbaragliato altri ventuno agguerriti concorrenti.
Anche
nel settore pubblico sta prendendo piede l’ottica del consumo di
prodotti locali: un caso virtuoso è ad esempio offerto dal progetto
“Bam.P.È.” (‘
Bambini e prodotti agricoli d’eccellenza’), che
promuove nelle mense scolastiche del Sassarese il consumo di prodotti
locali di qualità e, in tal modo, contribuisce al sostentamento
dell’economia isolana. Il progetto, sostenuto da finanziamenti a livello
europeo e della durata prevista di trenta mesi, persegue il duplice
obiettivo di fornire ai bambini delle scuole primarie un’alimentazione
sana ed equilibrata, ma al contempo anche di
educare le nuove generazioni
alla conoscenza dei prodotti tradizionali e di contribuire alla
formazione di ‘nuovi consumatori’ dotati di spirito critico e
sensibilità nei consumi.
Latte crudo alla spina
Ormai
diffusissimi sul territorio italiano, le capannine che offrono il latte
crudo alla spina rappresentano un’alternativa che sempre più
consumatori utilizzano. Nato come un esperimento, i distributori sono
ormai centinaia ed offrono non solo latte, ma anche burro, formaggi,
prodotti caseari delle aziende del territorio. Con un risparmio non
indifferente: ad esempio, un litro di latte crudo costa
un euro,
contro i 30-50 centesimi in più pagati al supermercato. Oltre ad
avvantaggiare i produttori locali, anche dal punto di vista ambientale
ci sono risvolti positivi, poiché in genere è possibile portarsi la
bottiglia da casa e riempirla presso il distributore, evitando lo spreco
legato allo smaltimento delle confezioni usa e getta.
In rete è
presente addirittura un sito che mappa i distributori di latte alla
spina (www.milkmaps.com), e fare acquisti è sempre più comodo grazie
alle chiavette ricaricabili, simili a quelle per la macchinetta del
caffè dell’ufficio. La sicurezza dal punto di vista alimentare è
garantita da
rigorosi controlli di qualità e gli sprechi sono messi al bando: il latte non erogato entro 24 ore viene ritirato ed utilizzato per la produzione di ricotta e formaggi.
Prodotti locali e chilometro zero: una scelta vincente
Il consumo di prodotti di origine locale sta vivendo un periodo di
grande espansione,
e non a caso: la promozione dei prodotti “a chilometro zero” ha
risvolti positivi sotto numerosi punti di vista. In termini di qualità
del prodotto offerto al consumatore, i cibi di provenienza locale sono
più
freschi e il loro
avvicendamento
aiuta a riscoprire il senso dei consumi stagionali. I prodotti del
territorio, inoltre, consentono il risparmio sulle spese di trasporto e
sulle emissioni di anidride carbonica, pertanto la loro scelta
rappresentano un’azione significativa in termini di
sostenibilità ambientale. Dal punto di vista del portafoglio, inoltre, il
risparmio
offerto dall’approvvigionamento diretto “dal produttore al consumatore”
è un vantaggio che, in tempi come questi, non è certo da sottovalutare.