È durato poco il mito della fabbrica integrata: dalla rivolta dei 21 giorni della primavera del 2004 gli operai hanno imparato a non chinare il capo da allora è stato un susseguirsi di scioperi e iniziative di lotta. A maggio lo sciopero della ex-Ergom contro 30 licenzimenti ha bloccato per una settimana la catena di montaggio spalmata sul territorio, a luglio lo sciopero sul premio di risultato ha nuovamente fermato la produzione. La dirigenza della Fiat si innervosisce, ogni giorno di sciopero significa 1.500 vetture in meno di quella Grande Punto che rappresenta oggi il core business dell'azienda automobilistica e corre ai ripari: da Pomigliano arrivano pullman carichi di crumiri, per l'azienda sono 500 ma in fabbrica gli operai confermano che sono molto di più.
Selezionati accuratamente dalla Fiat tra i 5.000 operai dello stabilimento campano, attraverso i paramenti di affidabilità aziendale e clientelismo politico-sindacale, questi lavoratori sono il tentativo di piegare la resistenza operaia di Melfi. Anche la disarticolazione dell'indotto industriale è parte di questa strategia. Bisogna rompere quella "contiguità dei corpi cooperanti" che permette il travaso non solo della componentistica da un azienda all'altra, ma anche della rabbia e del conflitto sociale.
Non a caso, al presidio permanente alla Lesme incroci gli sguardi e i volti già noti delle lotte della Fiat, così come vedi arrivare gruppi più o meno consistenti di operai degli altri stabilimenti dell'indotto che non solo scioperano in sostegno della vertenza della Lesme, ma hanno anche la possibilità di raggiungere fisicamente i cancelli della fabbrica ed esprimere così concretamente la loro solidarietà ed il loro sostegno, consapevoli che lo smantellamento della Lesme è solo un tassello di un progetto più complessivo che rischia ben presto di toccare anche loro.
Spostare la produzione da Melfi a Chiavari non ha alcun altra spiegazione se non questa. Non c'è alcuna crisi, la produzione va a gonfie vele, avendo una commessa garantita e duratura, eppure i proprietari hanno fretta di smontare i capannoni e i macchinari per scapparsene a Chiavari. Una produzione accellerata di scorte a luglio, così come il cambio della agenzia di security preposta al controllo esterno dello stabilimento, lasciavano già presagire il proposito di smantellare tutto ad agosto e far trovare agli operai al rientro l'inaspettata sorpresa. Nel giro di pochi mesi la produzione sarebbe ripresa finalmente in un clima di cooperazione ed armonia, quella cooperazione ed armonia che la fabbrica toyotista doveva garantire e che ora i padroni vorrebero ricostruire attraverso l'affidamento della produzione di questi alzacristalli ad una qualche cooperativa locale ligure per sbarazzarsi di operai e sindacati.
Malgrado i lavoratori della Lasme negli ultimi anni non abbiano certo brillato nella partecipazione e nella mobilitazione alle diverse lotte di Melfi, il rischio di finire in mezzo ad una strada li ha messi in movimento fin dal 13 agosto: due settimane di vacanza fuori ai cancelli della fabbrica, in un luogo deserto e desolato a 40 gradi all'ombra, tutto cemento, capannoni e asfalto cocente.
A differenza della Innse, qui gli operai sono quasi tutti iscritti alla Fiom, all'interno della Lasme quasi l'80% è iscritto al sindacato di Rinaldini, ma c'è anche il camper fisso della Rdb/Cub e presenziano anche gli altri sindacalisti della Cisl e Uil, con la loro solita montagna di bandiere e dall'inconfondibile look di affaristi azzeccagarbugli che arrivano finanche a sblaterare sulla possibilità e la legittimità delle gabbie salariali.
Martedì sera si passa all'azione. Dopo aver sfondato il cordone di polizia posto il giorno precedente a difesa della sede di Confindustria a Potenza, gli operai hanno compreso come l'occupazione dello stabilimento non poteva esser certo rinviata di giorno in giorno per la semplice presenza di un paio di vigilantes all'ingresso. Si apre il cancello e si corre tutti dentro.
Vai a pensare che tra quei vigilantes assunti solo poche settimane prima ci fosse un folle armato che spara ripetutamente per intimorire gli operai in corsa sul vialone dello stabilimento e che agita nervosamente la pistola ad altezza d'uomo nei confronti di Emanuele, un compagno della Fiom, che gli dice a gran voce di metter giù quella pistola.
Scene di inizio novecento che si rivivono tra mamme con il passeggino, bambini che da giorni animano il presidio e gli operai che legittimamente ora sono ancor più incavolati neri. Eppure questi spari sui lavoratori non destano scalpore così come nemmeno degnI di un trafiletto sui giornali locali sono gli spari di un audace proprietario terriero di Lavello che, a meno di 10 chilometri dalla Lasme, apre il fuoco con il suo fucile contro alcuni immigrati che si erano rifugiati per la notte in un casolare diroccato di sua proprietà, stremati dal lavoro nei campi. Silenzio e indifferenza avvolgono questi atti di pura violenza e bieco terrorismo. Verrebbe quasi la voglia di vedere queste scene con i ruoli ribaltati...
No, non sparano gli operai, stiano tranquilli lor signori, ed anche gli immigrati continuano a piegar la schiena 12 ore sotto il sole cocente del Tavoliere per 3 euro al cassone di quei pomodori il cui sugo assaporisce le nostre tavole.
Ma fuori e oltre l'individualismo imperante, fuori e oltre l'imbarbarimento razzista, fuori e oltre il controllo sociale e culturale, nella società prendono spazio percorsi di resistenza all'omologazione silente e di ricostruzione di legami e conflitti sociali: per quanto possano apparire meramente difensivi, a volte anche egoistici o arretrati, negli spazi sociali come quello prodottosi in questi giorni fuori i cancelli della Lasme e delle altre fabbriche in lotta, prende corpo un senso comune e una solidarietà collettiva che disintegra progressivamente l'apatia sociale, l'indifferenza e la solitudine sociale.Cioè le travi sulle quali poggia il potere.
Francesco Caruso