Il mio ultimo viaggio nella “rifiuti connection” lucana, dalle industrie chimiche abbandonate della malata Valle del Basento ai fosfogessi interrati di Tito scalo, si è fermato alle porte del Vulture. È qui che sorge – nella piana industriale di San Nicola di Melfi – l’inceneritore Fenice spa (con sede legale in Cascine Vica Rivoli, in provincia di Torino), controllato dall’Electricité de France (EDF). Un impianto che da oltre due anni continua ad inquinare la falda acquifera del fiume Ofanto e l’area occupata.
Una contaminazione destinata a peggiorare, anche alla luce della recente Conferenza di Servizi, tenutasi il 14 dicembre scorso, durante la quale alla presenza di Regione Basilicata e Arpab è stata decisa una proroga di circa 45 giorni per l’approvazione del “documento di analisi del rischio”, causa assenza dell’Azienda Sanitaria Locale di Venosa e dell’amministrazione provinciale in rappresentanza del Consorzio di sviluppo industriale. Di fatto, si allontanano ulteriormente le procedure del piano di caratterizzazione e la conseguente bonifica del sito inquinato, mentre metalli pesanti, trielina e altre sostanze cancerogene non scompaiono.
Danni, profitti ed omissioni
L’inceneritore EDF-Fenice spa è uno dei più grandi d’Europa per smaltimento di rifiuti industriali che assorbe la quasi totalità di scorie prodotte dal settore automobilistico italiano. Una costola dello stabilimento Fiat Sata su 85.700 metri quadrati di terreno, 110 miliardi di vecchie lire come investimento iniziale – di cui 60,5 miliardi di finanziamento agevolato ed una richiesta di contributo statale pari a 19,8 miliardi -, 30.000 tonnellate annue trattate di rifiuti solidi assimilati agli urbani e 35.000 tonnellate annue dichiarate di rifiuti industriali. Una carta d’identità costruita negli anni Novanta tra deroghe, ricorsi al TAR e al Consiglio di Stato, fino all’inquinamento di oggi, i cui intrecci sono stati riassunti perfettamente da Maurizio Bolognetti, ascoltato il 23 settembre 2010 in Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. Il segretario dei Radicali lucani informa che “nonostante l’Arpab sapesse dell’inquinamento per lo meno da gennaio 2008, il suo direttore Vincenzo Sigillito, comunica alla massima Autorità sanitaria, ovvero il sindaco di Melfi, e anche ad altri enti, solo nel marzo del 2009 l’esistenza di un problema”. Ma Bolognetti va oltre. “Dal 2002 all’Arpab è stato affidato il compito di monitorare le matrici ambientali di quell’area, ma nel novembre del 2009, nel corso di un’audizione dello stesso direttore (Vincenzo Sigillito, ndr) presso la Commissione regionale sull’ambiente e il territorio, emerge un particolare per certi aspetti inquietante: non ci sarebbero i monitoraggi del quinquennio 2002-2006, o se ci sono non valgono, perché non sono stati validati. Il sospetto che sorge a qualcuno è che forse l’inquinamento potrebbe essere iniziato ancora prima del gennaio del 2008”. Ed infatti l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente sapeva, come confermato a mezzo stampa, nel settembre 2009, dal dirigente Bruno Bove: “Già dal marzo del 2008 eravamo a conoscenza dei livelli preoccupanti del mercurio nella falda, ma non spettava al nostro Ente lanciare l’allarme”. Non solo mercurio. Nichel, cromo, tricloroetilene, tetracloroetilene, floruri, alifati clorurati cancerogeni. Una presenza allarmante di sostanze altamente nocive per la salute, con concentrazioni oltre i limiti consentiti che giustificano le due ordinanze del comune di Melfi emanate nel 2009, tuttora in vigore, con le quali si fa assoluto “divieto di utilizzo, a qualsiasi scopo, delle acque sotterranee emungibili dai pozzi presenti all’interno del perimetro del sito dell’impianto di termovalorizzazione Fenice nonché di quelli a valle del sito stesso”. Un divieto messo nero su bianco dopo la tardiva autodenuncia dei gestori dell’impianto costata, al momento, una irrisoria multa di 34.000 euro. Un palliativo, perché EDF-Fenice spa non si è adoperata nella risoluzione dell’accertata contaminazione – dovuta ad un malfunzionamento di uno dei due forni per l’incenerimento dei rifiuti speciali, come dimostrano le tabelle sull’attività di monitoraggio della matrice ambientale “acqua”, riguardanti i metalli pesanti, aggiornate alla fine di settembre 2010 e divulgate nel mese di novembre. A destare preoccupazione è il nichel, in 5 dei 9 pozzi di emungimento, e il tricloroetilene (trielina). Dal fronte giudiziario, invece, si apprende del trasferimento – dalle mani del procuratore di Melfi, Renato Arminio, alla Procura di Potenza – di un’inchiesta avviata nel mese di marzo 2009. Un passaggio di competenza gestito nel totale riserbo, per il quale non sono state rese note né le motivazioni di questa decisione, né i nomi dei presunti indagati.
Permessi scaduti
Dalla lettura dell’ultimo Rapporto Rifiuti dell’Ispra si apprende che l’Autorizzazione Integrale Ambientale per l’inceneritore EDF-Fenice spa è scaduta il 19 ottobre 2010 e che gli Uffici competenti della Regione Basilicata tentano di validare, assecondando l’articolo 9 del decreto legislativo 59 del 2005, che impone una rivalutazione dell’Aia in caso di accertato “inquinamento provocato dall’impianto” e, addirittura, lo stop all’incenerimento dei rifiuti – come più volte richiesto dall’Organizzazione Lucana Ambientalista (la quale chiede chiarezza sulla destinazione delle 26.000 tonnellate all’anno di ceneri tossiche prodotte). L’inceneritore continua però a bruciare rifiuti a ritmi serrati, anche in virtù di una recente Ordinanza del Presidente della Giunta regionale, Vito De Filippo, che ha disposto il conferimento di 1.600 tonnellate di rifiuti tal quale, provenienti dal centro di trasferenza di Tito a decorrere dal 1 dicembre 2010 al 31 dicembre 2010. Ma vi sarebbero inoltre anche altre anomalie, una delle quali è contenuta nel Piano di gestione dei rifiuti speciali della Provincia di Potenza. I conti non tornano sulla quantità di rifiuti speciali pericolosi conferiti nel forno rotante dell’inceneritore. Le quantità smaltibili riportate nel Piano variano da un minimo di 45.000 tonnellate all’anno ad un massimo di 65.000, a fronte di una capacità massima del forno rotante di 35.000. Se questi valori fossero avvalorati saremmo di fronte ad un superamento delle quantità autorizzate, confermando il ruolo assunto dall’inceneritore EDF-Fenice spa nel ciclo dei rifiuti in Basilicata. Basti pensare che nel 2008 a Melfi furono trasferiti i fusti contenenti vernici e solventi, interrati illecitamente in contrada Fosso Lavandaio di Pisticci e i percolati della discarica di contrada Frontoni di Santarcangelo. Un’operazione di conferimento, quest’ultima, costata 600mila euro, con i fondi del programma operativo Val d’Agri, finanziato con le royalties del petrolio. Ed oggi potrebbe toccare ai rifiuti campani, considerando anche una disponibilità palesata nel 2008, dal Comune di Melfi.
Ci si continua ad ammalare
L’incremento dei tumori in Basilicata (questione che Terra ha trattato il 30 giugno 2010) registra dati preoccupanti, con la curva dell’incidenza di tutti i tipi di patologie in ascesa, rispetto alla media nazionale e confrontati nei quinquenni di indagine 1997-2001 e 2002-2006. Nel Vulture la situazione non è migliore, con incrementi di tumori al colon (+18,5), al retto (+21,5), alla prostata (+84,2) per i maschi e alla mammella (+32,3), all’utero (+10,4) per le femmine, con un abbassamento dell’età media della popolazione colpita. I cittadini pretendono monitoraggi approfonditi e serie indagini epidemiologiche, mentre il vicesindaco di Lavello, Antonello Catarinella, chiede risarcimenti economici.
[articolo di Pietro Dommarco tratto dal quotidiano Terra del 19 dicembre 2010]
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