Come forse si poteva anche prevedere, il disastro elettorale di aprile (al confronto del quale lo sbandamento della "gioiosa macchina da guerra" appare oggi come un incidente di percorso) si è portato dietro anche un'implosione linguistica. Due aggregati pseudopolitici partoriti in fretta come il Pd e la Sinistra Arcobaleno si sono sbriciolati soprattutto contro se stessi, invalidando di fatto la possibilità di utilizzare anche in futuro il misero repertorio valoriale che avrebbero voluto tesaurizzare: cose come "il modello Roma" o un antagonismo di classe atomizzato. E quindi obbligando chiunque voglia riaversi da questo ground zero politico, a ripartire sicuramente non "da qui", ma "da altrove", a cercare qualunque altro tipo di riferimento ideale, di germe identitario per dare vita a qualcosa che possa chiamarsi sinistra.
Ma le colpe di Veltroni in questo senso sono state forse maggiori di quelle non piccole di Bertinotti. Nel suo progetto di suicidio morbido, l'ex-sindaco nel giro di pochi mesi è riuscito a segare prima il ramo su cui era seduto per poi sradicare direttamente l'albero. Non solo infatti ha fatto piazza pulita delle esperienze di governo esistenti, la sua e quella di Prodi, ma soprattutto ha eliminato - una pulizia etnica concettuale, si direbbe - almeno un secolo di pensiero e prassi politica in Italia. Il suo "shock di innovazione" ha funzionato sì, ma come l'ultima scossa di una sedia elettrica. Quest'eutanasia lampo è stata compiuta in nome di una battaglia contro un nemico esplicito: una militante campagna contro le identità.
Nel momento in cui Veltroni è diventato segretario del partito che lui stesso ha plasmato dal fango e ha avuto modo di chiarire quali fossero le basi della sua visione culturale e politica, si è subito affrettato a scagliarsi contro le tradizioni dei movimenti e dei partiti del Novecento, liquidandoli come blocchi sociali, abbarbicamenti nostalgici, pulsioni minoritarie. Parallelamente a quest'opera di repulisti, si è anche prodigato per una ridefinizione dei termini del conflitto con l'anomalia berlusconiana, di fatto legittimandola come mai prima. Scatola vuota per scatola vuota, almeno - qualcuno avrà pensato - Forza Italia ha quindici anni di storia. Questo è avvenuto secondo almeno due direzioni strategiche di comunicazione, forse veramente concepite da qualche spin-doctor.
La prima possiamo chiamarla "l'elogio preventivo del contesto": in ogni occasione in cui Veltroni ha parlato da sei mesi a questa parte, le sue prime parole sono state un elogio incondizionato al contesto in cui il confronto avveniva. Con punte di quasi beatificazione della tautologia, ha lodato la piazza, lo studio televisivo, la pacatezza dei toni dell'intervistatore, il mero fatto che si fosse lì: «Innanzitutto fatemi dire come questa campagna elettorale sia migliore di tutte quelle precedenti». Il risultato era che al di là del programma che andava sbandierando, chi lo ascoltava non ha mai avuto il minimo sentore di critica dell'esistente. Anche questo evidentemente doveva avere a che fare con quello che si intende per "vocazione maggioritaria". Soprattutto se accostata alla retorica berlusconiana, che nei manuali di marketing di Publitalia passati in mano ai militanti di Forza Italia consigliava di relazionarsi nel pubblico confronto come Berlusconi aveva sempre fatto: lodare il sorriso della donna, lodare la cravatta dell'uomo, anche qui preventivamente.
La seconda arma del discorso veltroniano è più raffinata a prima vista. Seguendo forse le indicazioni del linguista George Lakoff, dalla campagna elettorale in poi il nuovo leader del Pd pare aver deciso di evitare di "pensare all'elefante". Come i democratici negli States rispetto ai conservatori, anche lui ha scelto di non nominare Berlusconi, ritenendo così di districarsi da quella che sembrava essere una delle tare più ingombranti della sinistra recente: la demonizzazione dell'avversario, l'antiberlusconismo fine a se stesso. Seppure l'intenzione poteva essere lodevole - togliere al contendente Berlusconi la possibilità di imporre sempre lui l'ordine del giorno del dibattere, sottrargli il fronte del palco - la retorica sostitutiva è stata peggiore di quella da superare. Proponendosi di non stigmatizzare mai l'uomo col bandana, Veltroni e i democratici si sono però concentrati a non farsi sfuggire nemmeno uno degli argomenti della destra (dallo sprezzo dello stato sociale all'elogio dell'inesperienza), impiccandosi poi da soli col nodo scorsoio del "tema della sicurezza". In un tentativo scomposto di farlo proprio, "rideclinandolo", in contorcimenti, distinguo lessicali, aggettivazioni ad hoc, di cui gli elettori - più identitari forse? - hanno stentato a riconoscere la consistenza: perché per presidiare un luogo presuntamene pericoloso devo piazzare cinquanta telecamere se posso direttamente mandarci l'esercito?
Ma l'aspetto meno evidente della prospettiva veltroniana è ancora un altro: la povertà di visione ideale - per cui nel momento in cui gli è toccato farsi carico di un progetto politico che andasse al di là di una plausibile agenda amministrativa, l'entusiasmo, puff, si è dissolto- trova il suo alibi in un atteggiamento intellettuale fiacco: far coincidere la (supposta) comprensione sociale con il progetto politico. Il commento sui tempi spacciato per immagine del futuro. È indicativo in questo senso vedere come venga utilizzata, come strumento di analisi dei mutamenti del mondo, la vulgata sociologica di Bauman (anche nella lettera a Repubblica del 1 giugno): Veltroni ci aderisce in toto, e sembra che questo basti. Il mondo è liquido, il bisogno di sicurezza è legittimo, occorre disinnescare il clima di paura, serve solidarietà e severa certezza della pena. È permesso chiedersi dov'è la prospettiva teorica, progettuale, francamente politica, esemplare, simbolicamente efficace, personale?
E poi: in che modo il tema della sicurezza, con il suo portato semantico di evidente separazione - tutela di una parte della popolazione a scapito di un'altra - possa ancora essere rivendicato come un argomento di sinistra, è veramente difficile da capire; specialmente se lo raffrontiamo con quella che sembrava fino a poco tempo fa, la vera parola chiave della sinistra: l'uguaglianza. Qualcuno ne ha sentito parlare negli ultimi tempi?
Certo questa svolta linguistica doveva portare i suoi frutti, nella fattispecie il più prezioso: il nuovo. Il nuovo, nella neo-lingua veltroniana (ossia nel tragicissimo esempio di una metamorfosi orwelliana perdente), era tutto nella "vocazione maggioritaria" che la sinistra atavicamente litigiosa doveva finalmente fare sua: «conquistare - come si legge nell'ormai malinconico La nuova stagione - i consensi necessari a portare avanti un programma di governo».
Nel frattempo in cui, però, si sono rifiniti ogni giorno i dettagli di questo governo imminente, ci si è un po' distratti dall'immaginare un diverso tipo di società. Certo, se si fosse vinto, poco male. Ma, alla luce del risultato, la strategia di comunicazione non è stata quel che si dice efficace e le prospettive oggi sono quelle di un orizzonte stampato su poster attaccato al muro di un loft. Non sapendo fare altro che governare, i rappresentanti del partito democratico si sono inventati quindi una lunghissima sessione del gioco di ruolo chiamato governo-ombra. Il tempo da passare sono solo cinque anni, ha giurato il leader. In attesa, aspettando la definitiva maturazione della politica italiana (forse il partito "a vocazione unica"), chi può si arrangia andando a rispolverare qualche minimo tratto distintivo. Dai radicali ai cristiano-sociali e addirittura un partito rabberciato come l'Italia dei Valori prova a dire che tipo di società vorrebbe, differenziandosi dall'orizzonte degli eventi del Pd, semplicemente affermando la propria esistenza in vita. In altri casi, più isolati, c'è ogni tanto qualcuno che tenta invece di difendere categorie ormai in disuso come la giustizia sociale, l'identità dei diritti, la critica al sistema economico, l'antifascismo… Del resto, la sinistra dovrà pur risorgere da quello che è diventata: una piccola simpatica sottocultura, come i fanatici di Star Trek o quelli del curling.
di Christian RaimoTratto da Liberazione